Ciao ragazzi e benvenuti su Tutti parlano di Cinema.
Allora, iniziamo con una domanda preludio. Raccontateci qualcosa di voi, per presentarvi ai lettori e un po’ anche a noi. Qual è stato il vostro percorso fino ad oggi? Come siete arrivati a realizzare Mine?
Fabio Guaglione: È difficile riassumere sedici anni di attività! Dopo il liceo scientifico, in cui ci siamo conosciuti, abbiamo valutato se iscriverci o meno a una scuola di cinema… ma poi ci siamo buttati direttamente sul campo. Abbiamo comprato una videocamera digitale e abbiamo realizzato il nostro primo corto, Ti Chiamo Io. Da lì è iniziata quella che possiamo chiamare “gavetta”… e dal 2000 ad oggi abbiamo lavorato su spot, videoclip, cortometraggi. Senza sosta.
Fabio Resinaro: Abbiamo prediletto l’esperienza alla scuola del mestiere, ma questo non vuol dire che non abbiamo continuato a studiare. Ancora oggi ci interessa leggere ad esempio manuali di teoria di sceneggiatura.
Fabio G: I nostri corti hanno vinto diversi premi in festival internazionali, fino a che Afterville, nel 2008, è stato eletto dal Sitges Film Festival come “Miglior Corto Europeo”. Un riconoscimento che ci ha cambiato la vita, poiché a causa di quella vittoria siamo stati contattati dai famigerati “produttori americani”. Grazie a quel risultato siamo stati notati da agenti, manager e produttori statunitensi e siamo andati a Los Angeles per conoscerli tutti. È così che abbiamo iniziato il nostro rapporto con Peter Safran, produttore di Buried e Conjuring… e oggi anche di Mine.
Mine: film di genere, girato in inglese, con un attore americano piuttosto conosciuto. Strano mix per un film diretto da registi italiani. Come mai avete deciso di raccontare una storia simile? Come vi è venuta in mente?
Fabio R: L’idea probabilmente ci è venuta perché anche noi eravamo come il protagonista della storia… bloccati. Non solo per vicissitudini personali, ma anche lavorative. Dopo anni passati a sviluppare progetti per gli studios americani senza esito positivo, ci sentivamo esattamente come con un piede su una mina. Come potevamo muoverci per andare avanti? L’industria cinematografica stava diventando per noi un campo minato… (ride NdA)
Fabio G: Cercavamo un high concept per un film che non richiedesse decine di milioni di dollari da realizzare. E nei trap movies monolocation ormai i protagonisti erano stati racchiusi in qualsiasi tipo di posto angusto… come fai a battere l’originalità di un film tutto ambientato in una bara? Per cui abbiamo ragionato nel senso opposto. Uno spazio aperto che però fosse angosciante proprio per la sua vastità e per la solitudine a cui ti sottopone. E allora la domanda successiva fu: e come lo blocchiamo un personaggio in questa landa enorme? Click. E così venne l’idea della mina.
Fabio R: Ma tu non eri ancora convinto…
Fabio G: Sì all’inizio non mi sembrava un film interessante, perché mi sembrava uno di quei prodotti straight to dvd… ecco, mi sembrava un prodotto più che un film. Non vedevo quale fosse la storia buona da raccontare. Me lo ricordo ancora, eravamo in treno. Quando poi Resinaro mi ha spiegato il background del protagonista e la valenza metaforica del film, ho fatto un balzo dalla sedia e ho detto “dobbiamo girare questo film”.
E come già sottolineato sopra, il film è stato girato in inglese: che vantaggi può avere una scelta simile?
Fabio R: Molti. Prima di tutto, quando si affronta il film di genere, per noi è importante che tutto sia credibile e l’immaginario cosiddetto “americano” è diventato una sorta di campo neutro che accoglie la maggior parte degli spettatori del mondo. Per noi ogni cosa portata sullo schermo è un simbolo che veicola un senso, un messaggio. Un soldato reticente americano è il chiaro simbolo di un uomo che ha degli ideali ma ha smesso di scegliere per sé e segue gli ordini impartiti da qualcun altro. Se fosse stato un soldato italiano, si sarebbe comportato in modo diverso, avrebbe parlato in modo diverso, avrebbe avuto un background diverso. Non è solo una questione di lingua. E poi invece di Mike avrebbe dovuto chiamarsi Michele… (Ride NdA)
Fabio G: Poi ovviamente oltre a quelli creativi ci sono i vantaggi strategici. Essendo girato in inglese, con un attore affermato, il film ha più possibilità di essere venduto in vari mercati, diminuendo quindi il rischio d’impresa. Siamo filmmakers responsabili. (Ride NdA)
Certo, Armie Hammer nel ruolo del soldato Michele sarebbe stato alquanto interessante sapete… anche se poi magari avreste dovuto ambientare il film sulla Sila. Ma ok, ora la finiamo di fantasticare. Dunque: un soldato nel deserto finisce con un piede sopra una mina antiuomo e deve rimanere immobile per evitare il peggio. A parer nostro, la trama di “Mine” è molto “a basso costo”, al di là poi degli effettivi costi sostenuti per la realizzazione del film che non conosciamo. Che difficoltà avete incontrato nella produzione del film?
Fabio G: Il budget in confronto alla nostra ambizione era assolutamente basso! (Ride NdA)
Fabio R: È stata una produzione assolutamente indipendente. Ci siamo messi nei guai perché abbiamo voluto caratterizzare ogni scena in maniera differente, quindi era una sfida continua. Sicuramente le scene con gli animali sono state molto complesse da girare… anche perché non si sono rivelati molto collaborativi! Per cui abbiamo dovuto sistemare molte cose in post-produzione. Solo un animale ha “recitato” in maniera convincente… quindi l’abbiamo clonato nell’immagine. Fortunatamente è una scena molto buia.
Fabio G: In un film così, anche le cose apparentemente meno impegnative di qualsiasi altro progetto, come la continuità, richiedevano doppia concentrazione. Noi stiamo tutto il tempo con un solo personaggio… per cui inquadriamo continuamente i suoi vestiti, gli oggetti attorno a lui, le sue ferite… sempre. Non ci possiamo permettere un’incongruenza.
Quali sono il tipo di storie che stimolano di più la vostra fantasia e il vostro estro? Cosa vi fa esclamare “cavolo, questa storia dobbiamo girarla noi” o come da voi scritto in precedenza “dobbiamo girare questo film”?
Fabio R: I generi che sfruttano immagini visive più potenti, come l’horror o la fantascienza ad esempio, permettono di creare metafore più forti. Usare il genere spesso vuol dire comunicare attraverso iperboli che arrivano alla mente e al cuore.
Fabio G: Ci interessano le storie che parlino dell’essere umano. Di cosa definisca un essere umano. Di quale sia il suo ruolo nella realtà. Anche attraverso un semplice soldato che calpesta una mina antiuomo.
Come non chiedervelo. Ragazzi, che ne pensate del cinema italiano contemporaneo e quali tipologie di film vi interessano?
Fabio G: è un bel momento. Dopo Sollima, Sibilia, Rovere e ovviamente il grande Mainetti… speriamo di inserirci in questo filone di aria nuova. C’è una generazione di autori che vuole usare il genere per comunicare con il pubblico, ed esaltarlo. Noi ci schieriamo in prima linea.
Fabio R: E poi quest’anno sono usciti anche altri ottimi film, come La Pazza Gioia e Perfetti Sconosciuti.
Su La pazza gioia forse non siamo troppo d’accordo. Ma su Perfetti Sconosciuti, oh si, siamo d’accordissimo. Ottimo film, per chi ha voglia di capirlo ovviamente.
E poi, avviandoci verso la conclusione di questo gradevole scambio, ecco qua una domanda che definire tipica se non scontata è un eufemismo, ma ci sembra sempre una parte interessante delle interviste: se ci sono (e secondo noi la risposta è si), quali sono i registi a cui vi ispirate e/o che influenzano la vostra regia?
Fabio G: Cerchiamo sempre di rielaborare in maniera originale tutte le nostre idee. È innegabile però che i registi di cui abbiamo visto i film da piccoli ci abbiano influenzato molto. Spielberg, Zemeckis, Carpenter, Leone, Kurosawa…
Fabio R: Dei contemporanei sicuramente uno che ha cambiato il nostro modo di considerare lo storytelling, è Christopher Nolan.
Bello sentir nominare, oltre a due giganti come Kurosawa e Leone, anche due registi che adoriamo come Zemeckis e Carpenter. Ma detto ciò, il vostro ultimo lavoro sembra essere altro esempio di un cinema italiano che cerca di scavalcare la “solita roba” che viene realizzata e distribuita nel nostro paese, mirando ad un pubblico ampio pur decidendo nello stesso tempo di restare nel genere, quindi di restringere il target. Ci vengono in mente, per quest’ultimo anno, il nerissimo “Suburra” di Sollima, il supereroistico e romanissimo “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Mainetti e il fast and furious all’italiana “Veloce come il vento” di Rovere. Vi rispecchiate in questa corrente del cinema italiano e soprattutto vedete bene il vostro lavoro all’interno di questa triade di film?
Fabio G: Saremmo onorati di rientrare in questo… poker.
Fabio R: La cosa bella e interessante è che questi quattro film sono completamente diversi tra di loro.
È vero. Potrebbero rivelarsi l’inizio di un nuovo filone. Ognuno di loro, forse proprio perché così diversi. E proprio perché il cinema italiano deve risvegliarsi da un certo torpore e probabilmente, con un po’ di calma, lo sta facendo: cosa volete consigliare a tutti coloro che fermamente credono di voler dare il proprio contributo al cinema italiano e non solo?
Fabio G: I segnali sono chiari, siamo ad un bivio. Se il pubblico deciderà di supportare fortemente prodotti come quelli che abbiamo nominato, qualcosa può cambiare. Le case di produzione, di distribuzione ed i network italiani potrebbero realizzare sempre di più progetti di questo tipo. È il mercato che muove i soldi, ed il mercato deve dare la sua risposta.
Grazie per aver risposto alle nostre domande e alle nostre insinuazioni ragazzi. In bocca al lupo e che la forza sia con voi.
Fabio G: Il claim di Mine dice “Un solo passo e sarà tutto finito”. Beh… ad ogni fine corrisponde un inizio. Quindi andiamo tutti al cinema e facciamo quel passo, ovunque ci porti.

Le foto sono di Quim Vives (copertina) e Gianluca Sanna (chiusura, scattata presso il Cinema Arcadia di Melzo).